Le soft skill sono una cosa seria

Le soft skill sono una cosa seria

13 Mar 2018 - Articoli

Le soft skill sono una cosa seria

Le soft skill (o competenze trasversali, come le abbiamo sempre chiamate) non sono una novità assoluta: chiunque abbia mai preso parte ad un colloquio di selezione, non importa da quale lato della scrivania, vi dirà che quello che si cerca oltre alla competenza tecnica specifica (hard skill) è proprio quel “qualcosa” in più , a cui a volte vengono dati nomi piuttosto fantasiosi, che possa garantire che la persona scelta sia non solo in grado di svolgere bene le future mansioni che le verranno assegnate ma anche integrarsi al meglio nel team di lavoro, risolvere i problemi imprevisti che sicuramente si presenteranno, saper mediare con i colleghi e gestire efficacemente il proprio tempo. Il tutto dimostrando sempre una certa dose di flessibilità, che “ormai i tempi sono cambiati, e nessuno può aspettarsi di lavorare sempre allo stesso modo”.

Insomma, piccolezze.

Se fate una ricerca online troverete tantissimo materiale sul tema delle soft skill, più o meno con una costante: tutta l’attenzione si focalizza dopo che il World Economic Forum del 2016 pone queste “misteriose” competenze trasversali sotto i riflettori,  segnalando quali saranno quelle più richieste nel futuro anche a fronte della quarta rivoluzione industriale e come queste si integreranno con il nuovo mercato del lavoro, che si immagina fortemente modificato a causa dell’impatto delle nuove tecnologie, A.I. e Big Data in testa.

In modo poco modesto, devo segnalare che le competenze trasversali esistevano anche prima che ne parlasse il WEF. Solo che sono sempre state considerate appannaggio di pochi profili, tipicamente di provenienza umanistica (agli ingegneri ed ai matematici “non servivano”, tanto erano già bravissimi con le hard skill) e selezionati per posizioni medio-alte. In qualche caso se ne parlava anche per posizioni più basiche, ma allora le nostre soft skills subivano quella strana mutazione che le portava a trasformarsi in  “ addetti con gli occhi che brillano” o “persone che sul lavoro vogliono metterci l’anima”. Insomma la più classica incarnazione del “non tutti sono pagati per pensare”, arroccata nella convinzione che le decisioni si prendono dall’alto mentre “in basso” gli operativi si devono preoccupare di eseguire senza discutere.

Oggi la tendenza è un po’ cambiata, come vi racconta questo ottimo articolo di SenzaFiltro  (la testata on-line di FiordiRisorse) a firma di Diodato Pirone. Ed era ora. Le competenze trasversali sono diventate non solo  interessanti ma fondamentali, “fulcro” del processo di selezione.

Con buona pace di chi continua a credere che i candidati si possano scegliere solo sulla base del curriculum, magari assegnando uno specifico punteggio ad ogni caratteristica.

Personalmente questa “novità” mi trova più che favorevole, ma occorre fare attenzione ad un elemento importante: ora che le competenze trasversali si stanno prendendo la loro “rivincita”… come valutarle “bene” ?

Le caratteristiche personali dei singoli non sono così facili da “misurare”, e spesso si ricorre a semplificazioni rischiose: dalla lettura “trasversale” del curriculum (“scrivi che ti piace viaggiare, così penseranno che hai una mente aperta” “Ma vale anche il villaggio vacanze con animazione e buffet italiano?”) alla “interpretazione” dei profili social dei candidati (“…adesso posto una foto di questa bella tavolata all’aperto, così dimostro le mie capacità relazionali…”) alla più recente gamification (“ma di preciso, quanti punti devo fare a questo videogioco per ottenere il posto?”).

Per evitare polemiche sterili, ci tengo a precisare che non intendo dire che tutte le modalità citate sopra non abbiano validità. Anzi. Ma quando un tema diventa di largo interesse è inevitabile che vengano proposti approcci estremamente semplicistici (magari in nome del risparmio di tempo e risorse) che possono facilmente generare una gran confusione. Un esempio su tutti: si utilizzano da tempo test ed inventari professionali che hanno lo scopo di misurare queste abilità, con attenzione e cura. Si tratta di strumenti complessi, basati su controprove scientifiche solide, e di conseguenza piuttosto costosi. Negli ultimi tempi mi è capitato di trovare online molte proposte che vorrebbero rimpiazzarli: il costo è sicuramente molto minore ma… non è che basti inventarsi un centinaio di domande “a tema leadership” per costruire uno strumento di indagine affidabile.

Osservare senza interpretare è molto difficile: raccogliere un dato “oggettivo” (comportamenti, modi, preferenze…) senza darne una lettura personale non è così banale, ed il rischio di vedere esattamente cosa ci si aspetta è sempre dietro l’angolo.

Di recente, ho tenuto un’aula esperienziale dedicata ad un gruppo di giovani risorse inserite in azienda: attraverso l’utilizzo delle metafore, delle discussioni di gruppo, delle esercitazioni e dei “giochi” (questa parola meglio metterla fra virgolette, che qualcuno si scandalizza sempre…) le competenze e le potenzialità dei partecipanti sono emerse in maniera molto chiara, evidenziando punti di forza ed aree di miglioramento.

Si tratta sicuramente di un investimento maggiore per le aziende rispetto a tante altre alternative, e richiede senza dubbio una certa predisposizione nell’approccio alle soft skill come componenti fondamentali del profilo cercato e non solo come “aggiunte”.  Ma specialmente adesso che sono “di moda”, penso che spetti principalmente alle aziende decidere quanto credere “davvero” nelle competenze trasversali delle persone.

E investire di conseguenza.

[Fonte immagine: Pixabay]

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